palazzo delle finanze di Roma

Il più grande palazzo di Roma

Il Palazzo del Ministero delle Finanze

A cosa serve uno Stato? La prima funzione della struttura statale è quella di assorbire l’energia dei cittadini sotto forma di denaro e di distribuirla proporzionalmente lungo le linee del potere esecutivo.

Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente si affermò la rete vassalla. Dal vassallo, i valvassori avevano protezione e la gestione finanziaria dei loro possedimenti, giurando in cambio fedeltà ed obbedienza. Infine c’erano i valvassini, ultimo gradino della piramide, scelti dai valvassori. Questa ragnatela di potere permetteva di controllare il territorio e di padroneggiare i servi della gleba. A questi ultimi spettava il compito di mantenere tutta la struttura.

Nel mondo moderno, poco è cambiato, se sostituiamo i termini a partire da “servi della gleba” con “cittadini”.

L’Italia non fa eccezione a questa trasformazione.

La presa di Roma, nota anche come breccia di Porta Pia avvenuta il 20 settembre 1870, fu l’episodio del Risorgimento che sancì l’annessione di Roma al Regno d’Italia.
Propongo un estratto dal libro “Il Paese delle Tasse” del 1956, dallo stile quasi satirico di Enrico Nobis, una storia di burocrazia tipicamente italiana:

A sottolineare la nuova epoca che s’iniziava con la breccia aperta dai bersaglieri di Lamarmora il 20 settembre 1870, si volle di colpo mutar volto a quella parte della metropoli: scomparvero le deliziose ville tutte chiomate d’alberi immensi al di qua delle mure, che richiamavano e continuavano lo stile patrizio della Nomentana; e ad esse si sostituirono massicci casermoni quadrangolari, tutti simili fra loro per scipitezza di forme, irti di fregi pomposi e di stemmi in cemento intonacato, tutti cosparsi di simbolici gruppi scultorei raffiguranti l’Industria, il Commercio, la Finanza, l’Italia col suo ciuffetto di torri sui capelli, l’Amministrazione pubblica personificata da un donnone in toga che brandisce penna e rotoli di carta sui quali si legge la parola JUS.

È una sfilata quasi ininterrotta di Ministeri e di uffici pubblici: Ministero dei lavori pubblici. Ministero dei trasporti. Ministero del tesoro. Ministero delle finanze. Corte dei conti. Ministero dell’agricoltura.

Solo pochi mesi dopo la presa di Roma, fu quello il cuore della nuova nazione unita, prescelto forse proprio perché sorto intorno alla breccia di Porta Pia che aveva spalancato all’Italia la sua capitale. Laggiù le strade non si chiamano che con nomi corruschi, di famose battaglie risorgimentali, via Pastrengo, via Palestro, via Volturno, via Gaeta. E come un cuore la «zona ministeriale» cominciò per l’appunto a battere ritmicamente le sue sistole e diastole, pompando e travasando il denaro pubblico.

Fra le primissime cose a cui si pensò nella nuova organizzazione burocratica italiana fu l’installazione di una gigantesca pompa assorbente destinata, con le imposte e le tasse, a succhiare le «entrate» dello Stato; e la si chiamò Ministero delle Finanze.

Esso è il grande ventricolo ove si raccolgono, con una spaventevole molteplicità di voci di tassazione, tutti i quattrini dovuti allo Stato da un angolo allo altro del territorio nazionale, dai palazzi dei potenti e dalle stamberghe dei miserabili, dall’officina artigiana alla poderosa fabbrica meccanica, dalla bancarella dell’ambulante al grande magazzino metropolitano.

Non è senza significato che il Ministero delle finanze sia stato il primo primissimo, fra i nuovi edifici pubblici, a esser concepito e costruito. Non era ancora rimarginata con laterizi e cemento la ferita inferta dalle cannonate italiane a Porta Pia, che già nell’autunno del 1870 il governo dava incarico a uno degli architetti quotati dell’epoca, Raffaele Canevari, di por mano alla mastodontica costruzione.

E così la colossale pompa sorse nel giro — vertiginosamente celere, a quel tempo — di sette anni: l’inaugurazione ebbe luogo nel 1877.

L’edificio batte parecchi primati. Se si esclude il Quirinale (che del resto non è un Ministero né un ufficio amministrativo) il palazzo del Ministero delle Finanze è il più enorme fabbricato pubblico di Italia, con i suoi 730 finestroni, i suoi tre cortili di cui il mediano grande come una piazza, con portico e loggia tutt’intorno e con fontana a tulipano al centro, e i due laterali con maestose quanto inutili rampe di scale e che menano in giardinacci mal coltivati, mai visitati dal sole, all’ombra di «cedri del Libano» altissimi e perpetuamente muschiati dalla perenne umidità.

Il Ministero delle finanze, questo centro dietro le cui finestre si annidano migliaia di impiegati intenti a conteggiare quel che c’è nelle nostre tasche, copre la superficie spettacolosa di 36 mila metri quadrati, di cui 20 mila di fabbricato vero e proprio. Pensate: due ettari interi ricoperti di muratura a cinque piani: due ettari di terreno, per usare il linguaggio contadinesco, coltivati a scrivanie e archivi, e che non producono, ahimè, altri frutti che tasse e imposte.

L’edificio del Ministero delle Finanze e stato notomizzato con eccellente prosa — serissima, è vero, ma forse involontariamente ironica — dalla voluminosa Guida di Roma che il Touring pubblicò nel 1925: «Questo palazzo è la prima e maggiore, ma non la più felice costruzione ministeriale di Roma unitaria». E prosegue, con una curiosa esortazione ai turisti che visitano Roma: «Chi vuol farsi una idea dell’immensità della macchina burocratica, può infilare una delle scale d’angolo e fare una passeggiata ad un piano qualunque negli scuri e squallidi corridoi. Dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18 sono ordinariamente vivi pel movimento di innumeri interessati. L’uniformità desolante delle centinaia di camere polverose d’ufficio, che si aprono sui corridoi con le indicazioni degli occupanti, i tavolini degli uscieri, il pubblico annoiato che attende, formano un quadro caratteristico ripetuto all’infinito e non privo, per una volta, di interesse pel semplice visitatore, e d’insegnamento».

Questo eloquente squarcio venne poi espunto dal testo nelle successive edizioni della guida: era accaduto che parecchi visitatori, non esclusi alcuni turisti inglesi sommamente incuriositi, avevano seguito il consiglio del libro e si erano «infilati» a più riprese nel Ministero, inciampando spesso nei mucchi di carte impolverate che giacevano (e giacciono tuttora) alti come trincee nei corridoi degli ultimi piani, esaminando con sorpresa le interminabili fughe di stanze tutte uguali, ciascuna con la sua porta di legno rossiccio screpolato e il tassello di vetro smerigliato con su scritto malamente, dalla mano spesso inesperta di un usciere, il nome del burocrate titolare.

Tale ingerenza del turismo nell’amministrazione aveva finito coll’irritare alcuni direttori: non già ch’essi temessero, da parte di quei singolari amatori di curiosità romane, alcuna «violazione di segreto d’ufficio»; ma li indispettiva — a giusto titolo, in fondo — il fatto che il loro covile cartaceo fosse oggetto delle critiche occhiate di estranei e che gli stessi impiegati, nei loro andirivieni e nelle loro abitudini, fossero esaminati come animali allo zoo.

Li seccava che i visitatori sorprendessero, come avvenne due volte, maestosi archivisti-capi in maniche di camicia, intenti a far bollire una caffettiera su una macchinetta a spirito piazzata sopra le pratiche di ufficio, o giovani impiegati la cui scrivania era semicelata dietro un paravento e che, al momento di uscire alla chetichella per andare a prendere un caffè o per scambiare quattro chiacchiere con un amico in cortile, tiravan fuori dal cassetto un paio di scarpe da sistemare bene in vista, sotto il paravento, per far credere di esser sempre al loro posto di lavoro.

Non senza ragione si volle por fine alle indiscrete ispezioni dei turisti: il prestigio della burocrazia ne scapitava grandemente, e ciò appariva tanto più grave quanto più delicata è la posizione psicologica del Ministero delle finanze nei confronti dei contribuenti, agli occhi dei quali, come è noto, inventori ed esecutori di tasse e imposte sono sempre in sommo grado impopolari.

Ora, l’impressione di disordine, di sudiciume, di sciatteria, di evidente precarietà amministrativa che ogni visitatore ricavava da quei penetrali oscuri della Grande Pompa, non poteva che nuocere all’istituto, non faceva che abbatter del tutto quel filo di mistico rispetto che molti cittadini, specie delle classi più umili, conservavano ancora per l’imponente e un po’ grottesco apparato tributario italiano.

A ciò aggiungete la mostruosa complessiva di funzionamento del Ministero, il reticolato inestricabile delle pratiche, complicato ancor più dalla molteplicità incredibile delle tassazioni più diverse (se ne contano quasi un migliaio); e, a dare il colpo di grazia, l’inclinazione irrefrenabile dei burocrati dirigenti a infarcire lo svolgimento dei singoli affari con cavilli e sofisticazioni molte volte inutili.


Interessante, a semplice titolo di esempio, ciò che è accaduto nel «modo» di spedire la corrispondenza agli uffici periferici dipendenti, alle Intendenze di finanza provinciali e cosi via.

Oggi vi sono otto modi di spedire tali dispacci, otto differenti gradazioni che devono far impazzire tutti i postini e i ferrovieri della penisola. Al principio si usarono le «semplici lettere» inviate per posta come qualsiasi missiva. Ma poiché spesso la «semplice lettera» impigriva sui tavoli prima di prendere il volo verso la sua destinazione, si aggiunse, per le più urgenti, il timbro «Urgente».

A poco a poco si fini con lo abusare di quel timbro, e si rese perciò necessario differenziare le lettere veramente urgenti da quelle non urgenti su cui era scritto «Urgente». Si inventò allora la sigla «P», che significa «Precedenza» sulle altre missive.

Il nefasto fenomeno dell’inflazione dell’urgenza si ripeté, e il Ministero ebbe così un mucchio incalcolabile di «Precedenze». Come ovviare a questo fastidioso inconveniente che, a furia di invocar rapidità, accresceva il generale impaccio e la lentezza?

Presto fatto: fu escogitata la sigla «P.s.t. PP», che vuol dire «Precedenza su tutte le precedenze». Ma la triste carriera di questa frettolosità puramente formale non è finita qui: fu necessario istituire, per scavalcare le «P s.t. PP», un bel timbro «PA» («Precedenza Assoluta»). Ed ecco una valanga di «PA», per superare le quali si macchinò di creare la «PA s.t. PA», ossia la «Precedenza Assoluta su tutte le Precedenze Assolute».

Ancora invano: bisognava studiare ancora una formula per differenziare le lettere seriamente urgenti dalla marea delle formali «Precedenze assolute su tutte le precedenze assolute»: ed eccoci alla a MPA», «Massima Precedenza Assoluta», a sua volta scavalcata, infine dalla «MPA s.t. MMPPAA».

E ci si è fermati qui probabilmente solo perché il vocabolario non fornisce altri termini adatti a definire la cosmica velocità di cui si avrebbe bisogno per spedire la corrispondenza d’ufficio.

Il risultato di tutto ciò, naturalmente, è che il disbrigo delle pratiche è uno dei più lenti e farraginosi del mondo.[…] — continua a:

Il Paese delle Tasse.

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